foto di copertina @Simone Morelli / fotoservizio di @Priscilla Nutshell
Priscilla Nutshell è un’affermata fotografa e art director. Ha lavorato alle Settimane della Moda per vari marchi come MCM, Stella Jean, Ujoh, Davide Grillo e tanti altri. Tra i suoi clienti ci sono nomi importanti come Contributor, Vogue Italia o Elle Italia. Abbiamo incontrato Priscilla per parlare del suo percorso artistico e della sua collaborazione con il regista Giuseppe Sciarra per il progetto sul bullismo – Ikos – realizzato per la Regione Lazio e articolato in una serie di incontri con le scuole superiori di Roma e provincia, tenutisi dallo scorso ottobre fino a gennaio a Spazio Scena, in cui gli studenti hanno potuto parlare delle loro problematiche col supporto di una equipe di psicologi e avvocati. Priscilla Nutshell ha realizzato un reportage fotografico pasoliniano su questa esperienza scattando delle foto crude, tenere e dal forte impatto visivo.
Il fotografo Remy Donnadieu ha detto che la fotografia è la letteratura dell’occhio. È così?
“Credo che Donnadieu abbia ragione, in un certo senso ogni immagine che vediamo è l’insieme di quattro cose fondamentali: la storia, l’indagine, la commozione poetica, e la spontaneità. Non esiste immagine senza storia e sguardo senza commozione. Se pensiamo alla letteratura scritta capiamo che non c’è poi differenza se il risultato finale rimane l’opera intellettuale, un linguaggio che si esprime in maniera estetica e creativa. Così la fotografia si esprime passando attraverso più occhi: quelli di chi guarda, e quelli di chi viene guardato. Per me una fotografia senza storia e senza commozione non potrebbe essere chiamata tale. Inoltre trovo l’ espressione “letteratura dell’occhio” meravigliosa poiché l’occhio secondo me ha a che fare con l’anima, e una fotografia ci spoglia della nostra anima, la rivela“.
Il filosofo John Stuart Mill, ha invece affermato che la fotografia è una breve complicità tra la preveggenza e il caso. Di questa affermazione invece cosa può dirci?
“E’ vero, è così. Nel momento stesso in cui si guarda, c’è un istinto, che è quello dell’essere portati verso qualcosa che sta per accadere, che io prevedo in qualche modo ma che allo stesso tempo verrà chiamato “caso”. Ma cos’è il caso se non ciò che è chiaro che doveva succedere per un susseguirsi di scelte piuttosto che di altre ?“.
Come nasce Priscilla Nutshell come fotografa e chi sono le sue fonti di ispirazione?
“Nel 2015 mi sono iscritta all’ Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata (ISFCI) a Roma. Ho frequentato solo il primo anno che prevedeva tutta la storia della fotografia, la tecnica e la camera oscura. In quell’anno ho appreso tutte le basi che ancora oggi possiedo sulla fotografia analogica e in generale sulla fotografia. I docenti mi facevano notare che nei miei ritratti c’era sempre un’ impronta fashion. L’anno seguente ho iniziato da sola a sperimentare la fotografia di moda, sfogliavo riviste tutti i giorni e studiavo fotografi come Newton, Avedon, Demarchelier e Leibovitz cercando di rubare il più possibile. Così ho iniziato a scrivere a ragazze e ragazzi che trovavo interessanti, mi creavo un moodboard, li facevo venire a casa e li scattavo nella mia stanza che trasformavo in un piccolo set. Mi sono creata così da zero un portfolio e poi piano piano sono stata notata sui social da make up artists e stylists che hanno iniziato a propormi collaborazioni. In quel periodo scattavo uno o due editoriali a settimana. Sono poi iniziate ad arrivare le prime proposte da diverse agenzie, alcune si occupavano anche di sfilate per le quali poi per un periodo di tempo ho lavorato anche a Milano. Dal 2017 ho iniziato a lavorare a tutti gli effetti con la fotografia. Ho lavorato per diverse riviste, agenzie, e per diversi brand con campagne pubblicitarie”.
Che cos’è per lei la fotografia di moda?
“Per me è un reportage dove ho la possibilità di creare tutto ciò che voglio partendo da zero. Credo che una buona fotografia di moda per essere tale debba sempre avere la storia di quel momento, di quel vestito, di quegli anni, di quella persona, di quel gioiello. Senza storia come ho già detto, la fotografia non esiste. Studiare per me è stato fondamentale per poter realizzare quello che volevo in termini di idee, ma ancor più importante per me è stata l’esperienza sul campo, gli errori, senza i quali non avrei imparato metà delle cose che so ora“.

Ha lavorato per testate importanti come Vogue e Elle come fotografa di moda; come è stato approcciarsi ad un reportage come quello del progetto sul bullismo di Giuseppe Sciarra, Ikos, che invece prevede di fotografare dei soggetti comuni e non dei modelli?
“A dirla tutta per me è estremamente naturale ritrarre soggetti. E’ un ponte, è come darsi a vicenda nello stesso istante. Mi piacciono le persone, mi piace parlarci, mi piace fargli domande, conoscere le loro vite. La fotografia è solo una testimonianza di quei momenti. E poi la fotografia di moda è bella ma è sicuramente molto costruita, la realtà è ben diversa, un soggetto comune non sai mai come possa rispondere. Ci si sente un po’ ladri, si ruba ma al tempo stesso si restituisce qualcosa che magari solo tu hai visto. Lo trovo tanto affascinante. Mi fa stare bene questo scambio senza accordo. E’ un atto di fiducia“.
Ci parli della collaborazione artistica con Sciarra. Come nasce? Che tipo di rapporto si è creato durante il reportage?
“Con Giuseppe ci siamo conosciuti in un momento molto particolare delle nostre vite, e ci siamo capiti sin da subito. Questa collaborazione in realtà nasce quasi per caso. Avevo già visto Ikos, e l’avevo trovato disarmante, devastante, e meraviglioso. Avrebbe avuto uno dei suoi incontri settimanali, e così mi ha proposto di andare con lui per scattare qualche foto ai ragazzi, e io semplicemente ho accettato perché mi sembrava bellissimo. Durante il reportage è stato tutto molto naturale. Giuseppe mi ha chiesto anche se volessi intervenire per dire qualcosa, ho trovato fosse un gesto bellissimo, ma ho deciso comunque di non dire nulla e continuare a fare foto. Mi sono sentita a mio agio tutto il tempo, ci siamo capiti e basta“.
In Ikos il documentario di Giuseppe Sciarra, si approccia il tema del bullismo. Quanto questa cosa ha influenzato sul suo stato d’animo mentre fotografavi degli adolescenti che magari potevano esserne vittime?
“Molto, perché ho cercato di capirli attraverso quella lente, e credo che nelle foto questa cosa si tocchi con mano. Se fosse stato un reportage di ragazzi che passavano una giornata al luna park posso assicurare che le mie emozioni avrebbero portato a tutt’altro focus. In ogni fotografia c’è un “punctum” che è ciò di cui si fa esperienza nel momento in cui la si guarda“.

Crede che Ikos sia utile come progetto per le scuole? Secondo lei come è stato parteciparvi, per gli studenti?
“Ikos non solo è utile ma necessario. Se voi vedeste quanto, in quelle ore, quei ragazzi si sentono presi in considerazione, capireste quanto bisogno c’è di creare uno spazio dove loro possano sentirsi ascoltati. Una cosa che apprezzo di Giuseppe e dell’imprinting dei suoi incontri è il modo di relazionarsi agli studenti, non c’è dislivello. Entrambi, adulti e ragazzi, sono sul medesimo piano, e posso assicurare che il linguaggio è lo stesso. Per i ragazzi è un’esperienza bellissima ma non sono io a dirlo, ma loro stessi. A fine incontro, molti di loro, sono passati a ringraziare con una stretta di mano e l’ho trovato un gesto di una maturità incredibile“.
C’è un episodio in particolare che l’ha colpita durante il dibattito?
“Si, c’e stato un ragazzo che mi ha colpita particolarmente perché è stato tutto il tempo attento a ciò che veniva raccontato, senza mai distogliere lo sguardo, ponendo più di una domanda. Dietro le sue domande c’ho visto tanta voglia di partecipazione, e di riconoscimento, che lui secondo me non trova nella vita di tutti i giorni. Questa per me è la chiave di Ikos, che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita. Permette di poter partecipare, di sentirsi parte di un qualcosa, di un tutto, che anche se scomodo è vero. Come diceva Giorgio Gaber, “libertà è partecipazione.”, e i giovani, per sentirsi liberi, hanno bisogno di sentirsi partecipi, hanno bisogno di verità”.
Crede che la sua esperienza passata di adolescente possa in un certo qual modo aver influenzato il suo approccio al reportage?
“Mentre scattavo ero la me adolescente ma soprattutto ero loro. Io personalmente non sono mai stata vittima di episodi di bullismo da parte di altri ragazzi ma so cosa vuol dire sentirsi bullizzata dai “grandi”. Per me la scuola è stata la mia più grande bulla, non mi sono mai sentita “vista” dagli insegnanti, se non in rarissimi casi. Per essere insegnanti non bisogna solo aver preso una laurea, ma bisogna chiedersi se si è disposti a rinunciare al proprio ego di persona. Se la maggior parte degli insegnanti capisse questo, saprebbe che non esiste solo la “lezione” del giorno ma un’ infinita possibilità di meraviglia, che è proprio lì davanti ai loro occhi. Se non mi fossi sentita come quei ragazzi, probabilmente le foto non sarebbero le stesse. C’è tanto di me lì”.

Cosa pensa che si debba fare per arginare il bullismo? Qual è il compito degli insegnanti e dei genitori?
“Parlarne, ancora e ancora. E’ un tabù ancora troppo grande ad oggi quello del bullismo. Bisogna partire dal far sentire i ragazzi tranquilli nel potersi raccontare, esprimere, senza sentirsi sbagliati o addirittura stupidi. E questo deve partire da casa, dai genitori. Un ragazzo con dietro un genitore che offra dialogo, ascolto, e comprensione, può essere un ragazzo molto meno esposto al bullismo sia come vittima che come carnefice. Stesso discorso vale per gli insegnanti, se si pensa a quante ore passano insieme alunni e insegnanti, si capisce l’importanza del loro ruolo. Invece di girarsi dall’altra parte, come spesso accade, o sottovalutare il problema, dovrebbero abbracciare la causa e farla propria. L’insegnante dovrebbe essere un porto sicuro, e non qualcosa da temere o da cui sentirsi in partenza sminuiti o sottovalutati“.
Cosa crede proveranno le persone guardando le foto del suo reportage?
“Non so cosa proveranno le persone guardando le foto, non è tanto quello che mi sta a cuore, quanto che guardino e basta. La mia vuole essere una testimonianza di quei volti, a cui non si presta spesso attenzione, che invece sono lì, e possono dirci tanto. E soprattutto vuole essere una testimonianza del lavoro di un amico che stimo, che si batte da sempre per divulgare un qualcosa, che per me si può riassumere in una sola parola, rispetto, che poi alla fine è amore“.
-Ci sono dei nuovi progetti in cantiere? Pensa di continuare la collaborazione con Sciarra?
“Si con Giuseppe abbiamo altri progetti in cantiere ma li stiamo decidendo tutti strada facendo. Penso che ci aspettino ancora tante altre cose belle“.

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